domenica 5 gennaio 2014

PIOVEVA SU CATANIA QUELLA SERA DI GENNAIO

Pioveva su Catania quella sera di gennaio e dal pianoforte di Spanò precipitavano pezzi di vetro, schegge taglienti, gocce d'acqua affilate come lamette che laceravano la carne dei palazzi costruiti negli anni 50, 60, 70, già fatiscenti. I palazzi costruiti dai migliori ingegneri, geometri, architetti, costruttori, imprenditori, cavalieri, dirigenti politici, direttori di enti pubblici, crema della crema dell'intellighenzia della nostra città, sanguinavano tagliati dalla pioggia. Sanguinavano sul tettuccio della mia SIMCA 1000 color arancione i palazzi merdosi vicino Cibali sotto i quali avevo parcheggiato. Il posto peggiore dove potevamo finire a fare l’amore io e il giovane corpo di una mia amica di allora, o forse il migliore: fottuti da quei palazzi fin dalla nostra nascita. Ci amavamo fottuti dai palazzi. Avrei voluto conoscerli uno per uno, uno per uno, i membri di quelle favolose équipe di tecnici, progettisti, licenziatori edilizi. Pioveva! Mentre Silvia ed io scopavamo disperati, grandiosi e definitivi. Scopavamo incendiati dalla pioggia in quella notte agghiacciata. Scopavamo scomodi, tra il cambio e lo sterzo; scomodi nella nostra città. Scopavamo, e lei era... a fimmina di 'n amicu me, dell'amico mio, dell'amico che quella... ca 'dda sira ava fattu 'na minchiata. Era la donna del mio amico, di quel coglione ca 'dda sira s'ava spurttusatu. Testa di cazzo! Si era pisciato dentro una... cosa, che cazzo ne so... eroina troppo pura, sembra o tagliata male. Non lo sapevamo ancora. Avevo deciso di non dormire più. Pleagine avevo comprato quella sera a Via Caramba, a San Berillo dalle puttane.

Io non lo so come eravamo finiti a scopare lì, vicino al Teatro Stabile, so soltanto che quando, verso le sette e mezza circa, io e Silvia eravamo passati da Via Di Prima, all'altezza più o meno dell'imbocco di Via delle Finanze, da una porta finestra aperta, dalla porta finestra aperta di Spanò, si sentì l'inizio di una musica straziante, densa, carica di... di... non so che cosa. Era come l'ultima musica del mondo. Nessun oriente e nessuna alba all'orizzonte. Il comune senso del pudore mai avrebbe potuto essere offeso maggiormente dal nostro comportamento che non dalla vista oscena, pornografica, violenta della facciata di quei palazzi. Noi eravamo bellissimi, disperati e meravigliosi mentre su Catania cascavano pezzi rotti di cielo mentre io e Silvia ci cercavamo sulla pelle, ci cercavamo sulla labbra. 

Nella prima metà degli anni ottanta del secolo passato avevo circa la metà degli anni che ho adesso. Ero nel mezzo del cammino di quel che è stata fino ad ora la mia vita. Nel mezzo del cammino della mia vita, mi ritrovavo a scopare per le strade di una città accidentata, di una città accidentale, di una città occidentale, che per accidente, avrebbe potuto essere, come era, anzi, doveva essere, Catania.

Quello in cui rimanemmo fissati, Silvia ed io, come sospesi fuori dalla storia, non fu semplicemente l'attimo di un orgasmo. Fu la rappresentazione della bellezza assoluta. Rimanemmo fissati sulle nostre facce come in una maschera. Fissati su quell’espressione inebetita di chi ha appena avuto un orgasmo. Fissati in quella specie d’incantesimo in cui non si aspira più a niente. In quello stato alterato di nuova coscienza che normalmente dura pochissimo. Senza passato né futuro: lo stato puro del presente in cui il tempo sembra fermarsi, come nella morte.

Rimanemmo fissati, Silvia ed io, dentro quell'urlo muto in cui si fermò ogni cosa. Con gli occhi spalancati e nuovi guardavamo la pistola di un killer accanto a noi, che era appena sceso da una mercedes gialla dentro la quale si scorgeva la faccia anch'essa ferma e fissata in una maschera di un ragazzo che doveva avere più o meno la nostra età. Il killer, noi ancora non lo sapevamo, si chiamava Aldo, Aldo Ercolano. Era il nipote di Nitto Santapaola e anche il suo braccio destro. Ma in quel momento il suo braccio destro era disteso e fermo, fissato nel gesto dell'uccidere… un giornalista, uno scrittore catanese. Non c'è neanche bisogno di dire il nome. Tutto fissato, come in un presepe. Tutto pietrificato. Tutto e tutti. Tutto e tutti, tranne Pippo Fava che scese dalla Renault cinque che stava parcheggiando... e venne verso di noi.  La pioggia continuava a cadere, ma come se fosse lontana. Non so spiegare... con la consistenza di un silenzio. Con la consistenza di quel silenzio irreale che si crea quando... quando nevica. Venne verso di noi e ci guardò. Ci guardò con una delicatezza terribile e infinita, ci guardò fissati in quello sguardo. In silenzio. Poi, quando gli parve che la pausa fosse quella esatta, né prima, né dopo, disse:
Carusi, voi non sapete quanto mi 'unchia la minchia a farimi ammazzari accussì.

Come una formula magica, quella frase ebbe il potere di scioglierci dal nostro urlo pietrificato. Più precisamente ebbe il potere di farci separare dai calchi in gesso, dalle sagome, di noi stessi rimaste ferme imbalsamate in un istante. Rimasero aggrappate l'una all'altra le nostre statue, la statua di Silvia e quella mia, mentre noi ci staccavamo dai nostri simulacri per uscire fuori dall'apparente. Potevamo guardarci da fuori come fossimo i nostri angeli custodi. Fuori di noi, noi ci guardavamo dall'esterno. Viaggiavamo fuori dai nostri corpi. Guardavamo il mondo da una terza posizione. Potevamo osservarci di spalle, di profilo, di fronte. Potevamo guardarci agire mentre stavamo fuori dalla storia. 

Silvia ed io avevamo cercato un passaggio attraverso i nostri corpi. Avevamo cercato sulla nostra pelle il buco attraverso cui risalire, nella nostra coscienza, fino al dolore originario che aveva ammazzato Arturo. Volevamo arrivare alla fonte di quel dolore, risalire all'origine, da dove era partito tutto. Da dove era partito tutto? Cosa c’era successo, cosa ci stava succedendo? Cosa era successo nella nostra città? Cercavamo l'origine e ci siamo ritrovati di fronte alla mano che uccideva Pippo Fava. Cosa poteva voler dire?

Scendemmo dalla SIMCA con lo sguardo imbalsamato, fissato al culmine del nostro amplesso e Fava ci disse: 
Mi fate compagnia? Ho finito le sigarette. Prima che mi uccidano... se non sono già morto, fatemi fumare.

Io lo so che doveva essere tutta un'allucinazione, che dovevano essere gli effetti deliranti di un accumulo di stress e anfetamine. Lo so. Non voglio farvi credere che davvero pioveva sangue in forma di note dal cielo. Lo so, lo so che non è così. Lo so che non può essere stato reale però... però era vero. Eravamo giunti di fronte a quel quadro che rappresentava la prima tappa del percorso che quella notte avremmo dovuto compiere.
Silvia ed io, come Dante, nel mezzo del cammino della nostra esistenza, accidentalmente, nella nostra città accidentale, iniziavamo il nostro cammino verso l'alba, accompagnati da uno scrittore di fine secolo, che da lì in poi avremmo chiamato Maestro, Guida, the Driver.

Da "Ballata per San Berillo"

domenica 1 dicembre 2013

ESERCIZI DI PROSA BALLABILE

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ESERCIZI DI PROSA BALLABILE, un set su Flickr.
Comunicato stampa
con cortese richiesta di pubblicazione e/o diffusione


ESERCIZI DI PROSA BALLABILE
Cronachette di civile apartheid

di
TURI ZINNA

con
FABIO GRASSO, GIANCARLO TRIMARCHI + TURI ZINNA
Live & Drama set


Forte Fanfulla, 5 dicembre
Locanda Atlantide, 6 dicembre


Due serate romane per ESERCIZI DI PROSA BALLABILE lo spettacolo concerto di Turi Zinna.
L’attore e regista sarà infatti prima a Forte Fanfulla, giovedì 5 dicembre, alle 21.00, mentre la sera successiva, il 6 dicembre, a Locanda Atlantide, alle 21.30, per presentare la sua nuova opera in bilico tra speech art, techno sperimentale, improvvisazioni jazz e storytelling.

ESERCIZI DI PROSA BALLABILE si presenta infatti come un oratorio techno, un incontro tra beat elettronici e prosodia, un concept album teatrale.
Zinna racconta la rappresentazione mentale dell'esclusione, della separazione, quel muro, visibile e invisibile, che caratterizza la perenne crisi della democrazia italiana.
Parla della paura mai sopita di una borghesia sovversiva per quella miscela esplosiva di miseria e potenziale rivolta chiamata “questione sociale”.
E lo fa, con la qualità di scrittura e il misurato uso del dialetto catanese, già emersi nel precedente, plurirecensito lavoro ‘Doppio Legame’ e nell'opera ‘Ballata per San Berillo’, dedicata ai trentamila deportati trasferiti a seguito dello sventramento del quartiere omonimo al titolo, cavie del primo e forse più esteso esperimento di clientelismo di massa della storia italiana.
Complici e coautori della performance, gli artisti del suono Fabio Grasso e Giancarlo Trimarchi, che manipolano, quasi fosse uno strumento, l'esecuzione parlata di Zinna inglobandola nell’elaborato musicale.
Due le storie di ESERCIZI DI PROSA BALLABILE, tratti dai racconti teatrali di Zinna pubblicati nel volume ‘Catania Sotterranea II’.
"La vera storia di Turi u Bastaddu e Agatina Puntini Puntini", duello rusticano con risvolti metafisici tra un venditore ortofrutticolo ambulante e un camionista somigliante all'attore Franco Nero, e "Il Muro", storia, quasi vera, di un barbiere che, per uno scambio di persona il giorno della visita a Catania di Mussolini nel 1937, è oggetto delle attenzioni squadriste dei gerarchi locali.
Un immaginario popolare che viene inserito in narrazione e scena destrutturate, in cui alla potenza della lingua si unisce la forza dei suoni, creando un senso di devastazione e di angoscia ‘sociale’ che, superando i confini delle storie narrate, calano il pubblico nell’attualità.
Nella sua prima stesura ‘Esercizi di prosa ballabile’ è stato selezionato, a Lecce nel 2010, al Premio di drammaturgia ‘Il Centro del Discorso’.


TURI ZINNA / RETABLO
Autore, attore, e regista. Fondatore e direttore artistico dal 1989 della Compagnia Retablo, ha ottenuto segnalazioni e riconoscimenti come drammaturgo e sceneggiatore di testi per cinema e teatro in numerosi premi e concorsi tra cui Solinas, Oltreparola, Outis, il Centro del Discorso, Pescara Corto Script, Alberto Sordi, Lia Lapini, Fersen, Lo Spazio, RIFF Per Voce Sola. Il soggetto cinematografico del suo testo teatrale ‘Ballata per San Berillo’ è pubblicato con il titolo ‘Premio Solinas, scrivere per il cinema. Autori e Storie 2003’ (Ed. della Battaglia 2003). Dal 2005 al 2007, è stato direttore artistico del festival di teatri e culture contemporanee "Cultania", nell’ambito di un progetto innovativo di fruizione dei beni monumentali e delle attività culturali della città di Catania attraverso l’uso della tecnologia.
Ha lavorato, tra gli altri, con Calenda, Pugliese, Marcucci, Sbragia, De Monticelli, Sammartano, Müller, Turi Ferro, Piera Degli Esposti, Elena Zareschi, Pietro De Vico, Anna Campori, Aldo Tarantino, Rosalia Maggio, Paolo Bonacelli, Irene Papas, Enrico Montesano. Al cinema ha recitato ne ‘Il muro di gomma’ di Marco Risi, e in ‘Una storia semplice’ di Emidio Greco.
www.retablo.org

GIANCARLO TRIMARCHI / LOOZOO
Loozoo è un gruppo di musica elettronica formato da Giancarlo e Raffaele Trimarchi. Fondato nel 1996, dopo un periodo di improvvisazioni live di impostazione Techno-Ambient, la band ha sviluppato nel tempo un personale ambito di ricerca critica nei linguaggi della musica techno popolare e dell' hip-hop strumentale tramite sonorità e timbriche derivate da personali sperimentazioni nel campo dell'elettro-acustica e della computer-music.

FABIO GRASSO
La sua ricerca artistica è focalizzata sulla libera improvvisazione con ogni tipologia di linguaggio musicale. Autore di musiche per teatro ha composto ed eseguito in scena le musiche per ‘La Festa dei Morti’, ‘Edipo Re’ e ‘Mnemonico’ di P. Taddei, ‘Le Mosche’ regia di G.Palumbo e ‘Cagliostro’ di L.Raczak prodotto dalla Fondazione Orestiadi di Gibellina.
Per Turi Zinna ha composto le musiche di ‘Ballata per San Berillo’, di ‘Sulla Donna’, performance su saggi brancatiani all'interno del Museo Emilio Greco, e di ‘Don Giovanni Involontario’, riscrittura dell'omonimo testo di Vitaliano Brancati.


Per info
www.retablo.org
info@retablo.org

5 dicembre, ore 21.00 Forte Fanfulla
www.fanfulla.org
fanfullateatro@gmail.com

6 dicembre, ore 21.30 Locanda Atlantide
www.locandatlantide.com
info@locandatlantide.it


leStaffette
ufficio stampa e promozione lestaffette@gmail.com
Raffaella Ilari, mob. +39.333.4301603 
Marialuisa Giordano, mob. +39.338.3500177

Tramite Flickr:
Zo, Centro Culture Contemporanee - Catania - debutto - 19.11.2013 - still dal video di Alessandro Aiello / Canecapovolto

domenica 15 settembre 2013

LA CITTÀ PARALLELA

Digressioni su: "Ballata per San Berillo"



Dire di San Berillo significa addentrarsi nel cuore di tenebra di Catania. Nel nucleo ingenito della sua contraddizione contemporanea. Significa andare a ritroso nella nevrosi che ne costituisce il sintomo. Bubbone purulento, pustola infetta, escrescenza, ciste: la letteratura storico giornalistica era sempre stata prodiga di termini anatomo-patologici, oggettivi, scientifici, ogni qualvolta aveva cercato definizioni per descrivere il quartiere di San Berillo. Un corpo estraneo nel corpo della città. Un tumore. Una Catania abusiva nel centro di Catania. Già decenni prima dello sventramento la città egemone aveva messo in opera una tale azione di propaganda. Aveva deciso di cacciare la città subalterna dai territori in cui abitava. Aveva deciso di spremere il bubbone infetto, di evacuare il pus, un pus osceno di trentamila cristiani. E per questo aveva messo in campo la precondizioni culturali per giustificare la sua dichiarazione di guerra. Sin dalla sua ricostruzione dopo il terremoto del 1693 che la distrusse completamente Catania aveva assunto questa doppia e distinta identità: egemone, costituita da clero e nobiltà agraria che aveva investito nelle cubature sontuose che caratterizzano tutt'oggi la Catania tardo barocca; e subalterna, costituita dagli operai e dagli scalpellini venuti dalla provincia che quella città egemone avevano materialmente costruito e che si erano insediati nell'area retrostante l'antica porta di Aci (piazza Stesicoro), che divenne poi il popolarissimo quartiere di San Berillo.  Un'area che alla fine degli anni 50 si estendeva per 240.000 metri quadrati ed era popolata da 30.000 abitanti.
Costruire un'opera su San Berillo ha richiesto, a me, a Elio Gimbo e a Fabio Grasso, lo studio di una forma, di un dispositivo, che  rappresentasse in profondità questa condizione metaforica di sintomo.
Un sintomo che non è stato guarito dallo sventramento e dall'espulsione in massa dei trentamila catanesi subalterni dalla loro città che avevano edificato. Un sintomo che, come ogni sintomo, si aggrava e ritorna in forme sempre più virulente quando non si affronta la causa che genera il malessere. Da dove partire, quindi, ad indagare? Il sintomo è di per sé una forma condensata di drammaturgia. E' una conformazione con uno schema formale che presuppone una scaturigine. Quindi, forse, un viaggio in direzione della sorgente? Sì, ma da dove far salpare le nostre navi se non dalla contemporaneità, dal malessere generazionale che vivevamo, dalla malattia di cui eravamo parte e che Catania ci riversava addosso?
E allora, via con le nostre ferite. Cose che non sono mai finite dentro lo spettacolo, ma che ne hanno stimolato la creazione.

1980. Non ho ancora 17 anni. Percorro la via Mercede quando, nell'istante che avverto un sibilo metallico,  davanti ai miei occhi si scalfisce il muro d'angolo dove la traversina incrocia via Caronda, proprio in faccia alla chiesa di Santa Maria della Mercede. Non capisco subito cosa stia succedendo. Mi affaccio su via Caronda. C'è un ragazzo alla mia sinistra, accanto a un motorino. Lo riconosco. E' un mio ex compagno di scuola, uno che già ai tempi delle elementari era stato beccato mentre rubava un pony. Dall'altra parte della strada, all'angolo tra via Caronda e via Costanzo, nascosto dietro una macchina, un gruppo di cinque giovani. Venticinque, trent'anni, trasandatissimi, capelloni, barba lunga, aria truce. Praticamente dei delinquenti. O almeno cercano in ogni modo di apparire tali. Hanno appena sparato al mio compagno delle elementari colpendo il muro della stradina dalla quale sono appena venuto fuori. Attraversano al strada e... in pochi secondi  riducono il corpo del mio coetaneo a una poltiglia di sangue facendolo assomigliare in maniera sconvolgente alle fotografie del cadavere martirizzato di Pasolini che mi era capitato di vedere per la prima volta proprio in quei giorni. E mentre quegli animali lo caricano in macchina come un sacco d'immondizia, io cerco un citofono a cui suonare per chiedere a qualcuno di chiamare la polizia. “Sono loro la polizia”, mi rassicura una signora che viene fuori dalla chiesa. E più mi rassicura, più io tremo. E mi sento in fibrillazione. Non capisco cos'è. Il mio sintomo è la paura, il panico e una rabbia cieca. Saranno gli ormoni della fine adolescenza, spiegano i dottori a mia madre. Ma nessuno riesce a convincermi che questa sensazione fisica non sia invece legata al fatto di vivere in questa città.

C'è qualcosa che mi sfugge, uno iato tra quello che vedo e quello che sento. Ci sono cento morti ammazzati all'anno in città, c'è una guerra in atto, e autorevoli dichiarazioni della città egemone che assicurano che la mafia a Catania non esiste. Che è una cosa di Palermo. Quello che è sotto i miei occhi, sotto gli occhi di tutti, subisce una cancellazione percettiva. Una cancellazione che in me e nella maggioranza dei catanesi, finisce per diventare  l'unica percezione cosciente. Un incantesimo che ci strega gli occhi e che ci induce a guardare la nostra città come da dietro un vetro opaco, da dentro una cortina di sonno. Mi chiedono di convincermi che il reale non sia reale. Di abituarmi a credere che sia qualcos'altro. Mi chiedono di credere che quelli che hanno quasi ammazzato il mio compagno non siano delinquenti, ma poliziotti travestiti da delinquenti. Che recitino. Che sia come a teatro in cui io faccio finta, convenzionalmente, di credere all'interpretazione di questi attori poliziotti che interpretano i personaggi dei delinquenti, ma che io, in quanto spettatore, devo riconoscere nella loro qualità di tutori dell'ordine e della legge. Mi chiedono di non fidarmi di me stesso, delle sensazioni del mio corpo, che in una qualche parte più profonda capiscono e mi avvertono che la realtà non può essere limitata a quella rappresentazione. Che deve esserci da qualche altra parte una realtà parallela, una città parallela alla quale non mi è consentito di accedere. Una città in cui, come avrei saputo molti anni dopo, alcuni di quei poliziotti finti delinquenti sono veri e propri killer al soldo di Nitto Santapaola. Mafiosi, finti poliziotti, che recitano la parte dei mafiosi. Cioè di ciò che in realtà sono.  Una città parallela, subconscia, in quanto fuori dalla consapevolezza degli abitanti. Una città nascosta sotto la pelle della città in cui è in corso da anni una guerra con un solo esercito in campo che sta facendo fuori ogni singolo possibile oppositore, ogni singolo possibile disvelatore di quel livello occulto di realtà. 

Ma quando avevo avvertito per la prima volta che Catania si nascondesse a se stessa in quel modo? Per me, per molti di noi, sono sicuro, ciò è avvenuto la notte del 5 gennaio 1984. Quella notte il sintomo esplode, deflagra, squarcia la pelle e lascia scoperte ampie ferite che sono dei veri e propri passaggi per entrare nella città parallela. Precipizi che ci svegliano in un batter d'occhio e che ci fanno rendere conto che non ce ne eravamo mai resi conto, che quella città era lì e che era lì avevamo sempre vissuto, che era in quell'inferno che stavamo vivendo. Per fare un favore ai Cavalieri del lavoro, agli stimati imprenditori della città egemone, agli imprenditori che avevano iniziato ad accumulare le loro fortune con i subappalti della mega operazione di sventramento del quartiere di San Berillo, il gruppo di fuoco di Ognina della famiglia Santapaola quella notte fa fuori Pippo Fava, che con l'iniziativa editoriale indipendente de “I Siciliani”, aveva puntato i riflettori sulla città oscura, sulla guerra non dichiarata.

Come poteva non essere questo allora il trigger, l'innesco del dispositivo drammatico, il punto di partenza del viaggio? Un viaggio tutto in una notte nell'arena della città parallela. Condensato nel tempo fisico del percorso della pallottola che dalla canna della pistola di Aldo Ercolano raggiunge il corpo sacrificale di Fava. Espanso nel trip soggettivo di due adolescenti che attraversano avanti e indietro il tempo e lo spazio della città guidati dal drammaturgo-giornalista in funzione di driver metafisico. Guidati a riconnettere i fili spezzati che legano insieme la tela delle solitudini delle vittime inconsapevoli della guerra segreta di Catania.  

Ma questo passaggio a una dimensione altra della realtà porta, nella dinamica del lavoro drammaturgico, a dover fare i conti con un genere specifico, il fantasy, che ha le sue necessità da soddisfare, pena il rimanere vittima delle aspettative mancate del pubblico. Ballata per San Berillo è un noir fantasy politico sovrannaturale. Parla di cose realmente accadute, precisamente documentate, ma lo fa nel linguaggio del sogno psichedelico. Non c'è nessuna gratuità in questo. Non si tratta di una licenza stilistica. E' la condizione più naturale che avevo teatralmente a disposizione per accostarmi anche nella forma alla memoria negata ma emotivamente pulsante della città. Ristabilire un patto di credibilità con la realtà tra me e il mio pubblico specifico attraverso l'immersione in una realtà scenica incredibile è stata un'azione politica di rovesciamento del patto di credibilità con la realtà che il potere della città egemone aveva contratto con la città subalterna mantenendola in uno stato di inconsapevolezza. Poter sciorinare i dati della truffa ai danni dei proprietari espropriati dell'area soggetta a sventramento da parte dell'Istica, dell'Ist Berillo, della Società Generale Immobiliare, dei politici della Cumacca che sono ascesi al potere attraverso di essa e lo hanno mantenuto per più di quarant'anni, etc. all'interno di un'allucinazione lucida mi ha consentito di stabilire un rapporto di empatia profonda con gli spettatori. Non si trattava più, per me e per loro, di dare o ricevere informazioni, bensì di celebrare un rito di emendamento dal male. Un'esperienza intensa e stranissima. Qualcosa che non mi era mai capitata. Replichiamo lo spettacolo in città dal 2001. Ogni volta immaginiamo di non farlo più perché valutiamo di aver esaurito il bacino di pubblico disponibile a venire a vederci. E ogni volta è una sorpresa accorgerci che gli spettatori sono sempre più numerosi. Ma la cosa ancor più sorprendente è accorgerci che sono tantissimi gli spettatori che tornano, che hanno partecipato allo spettacolo chi tre, chi quattro, chi cinque volte. E' evidente che non si tratta semplicemente del godimento di un'esperienza estetica. La leggo come la necessità di tornare nel luogo del sacrificio iniziale, dello stupro fondante della convivenza della Catania contemporanea. Questo rappresenta per me San Berillo e lo spettacolo che mi ci ha legato: il quartiere santo, martire laico, compatrono con Sant'Agata della mia città. Io, Elio Gimbo e Fabio Grasso lo veneriamo ogni volta che ci viene chiesto di rimettere in scena la nostra Ballata.

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Articolo pubblicato su  



domenica 21 aprile 2013

IN MEMORIA DEL PD

ma pure di tutto il resto della sx italiana.

[...]

BOMBOLO:
Pe' paura, Virgì, pe' paura! Pe' sta paura che me magna er respiro e che me fa esse legato a ste corde der pupazzo che sono. La paura che nun me fa riuscì a esse n'antra cosa de no zzombi che cerca quarcuno che je tira du pizze 'nfaccia o je mette 'na bbomba sotto ar culo. E' vero, Virgì, io t'ho preso n giro. Io nun vojo partì co te, nun vojo annà in nessun antro posto a guardà le nuvole. Io nun so manco che so' ste nuvole. Io vojo restà qua a fa' er fantoccio de me stesso. Vojo restà 'n fanciullo, na creatura, n'essere debbole, 'n malato, 'no storpio, un diseredato, un commiserato, 'n relitto pietoso, 'n povero scemo, 'n cane co' l'occhi piagnoni che domanna pe' favore ar padrone de portallo cacà, 'n porco terorizzato ar macello prima d'esse squartato... Tzé, tzé, tzé, tzé... Io nun so voluto mai partire ne co te ne co nessun'antra. Ho racccontato sempre balle, a te, a Bernarda, a Giovannona. Pe compravve, pe comprà l'affetto vostro... V'ho trattato da mignotte. Me so comprato er vostro calore, perché c'avevo freddo, Virgì. C'avevo freddo... Tzé, tzé, tzé, tzé... C'avevo freddo...Tzé, tzé, tzé, tzé...

CONFESSIONE DI BOMBOLO VENTICELLO ALLA SUA FIDANZATA UBALDA VIRGINIA COSCIALUNGA A GIUSTIFICAZIONE DEL SUO TRADIMENTO...

DAL PROGETTO CHE NON SO SE MAI RIUSCIRÒ A REALIZZARE SULLA COMMEDIA EROTICA ITALIANA

sabato 19 maggio 2012

Confessioni di uno stragista democratico


Una tarda sera, nel giorno della rappresentazione.
La fine del fiume delle stragi italiane, una sorta di recinto sacro d'acqua, pieno di fiammelle galleggianti e vestiti rosso sangue, sulle cui rive il pubblico partecipa a una cerimonia di sacrificio. Immerso nell'acqua, completamente coperto di melma, con una pipa in bocca e una pistola in mano, la vittima sacrificale: un soldato di una delle tante agenzie criminali che hanno insanguinato l'Italia negli ultimi settant'anni che chiameremo Killer.

KILLER

Questa non è una pipa. Questo non sono io. Questo... è il personaggio che stasera qui vi rappresento, e che voi, per il solo fatto che io parli con la sua voce, state identificando con me. Quelli che mi stanno guardando non lo so se siete voi. Questa sorgente putrefatta della falsa coscienza non è una sorgente putrefatta della falsa coscienza.
Quelle che vi sto dicendo sono una marea di minchiate, ma tutte queste minchiate non sono proprio per niente minchiate. Questa non è una pippa.
Non c'è niente che fa cagare di più un personaggio come potrei essere io di quest'idea di spettacolo di rappresentazione.
Lo stato, le persone per bene, vorrebbero che lui recitasse, che facesse l'attore, il criminale, il killer, così che loro, seduti belli comodi, potessero mettersi a giudicarlo.
Questo io che stasera, qui, vi rappresento, e che da adesso in poi chiamerò "Io", come me stesso, come colui che state guardando in questo momento, questo io, cioè Io, vaffanculo, voi, che forse non siete neanche voi, forse, avete il diritto di ucciderlo, ma non avete il diritto di chiamarlo assassino.
Il fatto è che non avete le palle per sparargli. Non avete i coglioni di farlo con le vostre mani. Magari paghereste qualcuno per farlo facendo finta di non sapere che glielo avete ordinato voi. E magari avete pure il coraggio di indignarvi se venite a sapere che lo ha fatto per conto vostro.
Queste bugie... sono bugie!
Io sono un soldato, cazzo! io sono un soldato, porca puttana! Sono un soldato che ha combattuto per voi. Che cazzo siete venuti a giudicarmi!
Avete il diritto di uccidermi con le vostre mani, avete il diritto di fare questo, ma non avete il diritto di giudicarmi. Cazzo non potete permettervelo.
Io voglio, desidero, pretendo con tutto me stesso di essere ucciso da voi. Non merito di meno! Voglio morire in guerra come ho vissuto da soldato. E se voi credete che io sia il vostro nemico, allora pretendo, esigo, voglio che mi ammazziate sparandomi in faccia da uomini.
Spara! Sparatemi!
L'orrore che mi avete delegato per la vostra innocenza vi deve invadere ... dalle gambe, dalle natiche, dal buco del culo, dalle budella, dallo stomaco, dall'esofago... voglio, pretendo, esigo vedervi vomitare, cazzo!
Coraggio, forza! Si può imparare a convivere con tutto. Basta cominciare una volta. Una volta sola.
Le persone le cominci a vedere piccole, piccole, cioè... da che le vedi vive, a che le vedi morte è tutta una cosa, come se non esistessero più... le pensi morte già dentro di te... Il resto è solo gesto esterno: il dito sul grilletto, una lenta e decisa pressione, il cane che si solleva, il clic, lo scatto, il percussore che colpisce il proiettile, lo sparo, e l'essere finisce di essere.
Dopo il primo omicidio non sentivo più niente, non mi è successo più niente, cioè io uccidevo con una facilità enorme. Non so, uccidevo verso le dodici e mezza, all'una io ero a tavola con i miei figli che mangiavo". Una mattina ne ho uccisi tre prima di andare a messa alle 11. Gli sbirri hanno trovato tre stronzi per terra tutti bucati! C'era tanto sangue che scivolavano col culo per terra. Minchia, le risate!
Non sentivo più niente da quando mi avevano tirato su la testa a forza: "Guarda che... tutti quelli che... dopo il primo omicidio avete questo comportamento di vomito e cose sarete dei grandi assassini".
Quella sera mi sembrava che non avrei più fatto nella vita nient'altro che vomitare. Non mi ricordo da quanto tempo era che stavo vomitando...
Materia grigia... cose interne, il sangue di quell'uomo sui miei vestiti. Avevo i brividi e la testa pesante.
Non mi ero reso neanche conto di ciò che avevo fatto.
Mi ricordo il silenzio, alla fine. Ero rimasto a fissarlo stupefatto: dopotutto era la prima volta che vedevo una persona morire davanti a me. Il tonfo della testa che cozzava a terra. La pipa che cascava dalla sua bocca. Fontanelle di sangue e filamenti interni che schizzavano ovunque. Carne presa a pugni, ossa fatte a pezzi, il corpo che sobbalzava ogni volta che premevo il grilletto. Lo avevo finito con tre colpi alla testa.
Continuava a guardarmi e a implorarmi. Senza mollare quella cazzo di pipa.
L'orrore ha un volto, e bisogna farsi amico l'orrore per potere essere un buon soldato. E per me l'orrore aveva il volto di quell'uomo con quello spacchio di pipa in bocca.
"No, non uccidermi, ti prego!".
Ero tornato indietro perché dalla macchina mi facevano il pollice: "finiscilo quel bastardo!"
Cazzo, merda, porca puttana, mi stavo cagando addosso e mi stavo allontanando mentre quello era ancora vivo. Mi era scivolata la seconda pistola, una 38, dai pantaloni. e manco me ne ero accorto.
Era ancora vivo e piangeva: "Ho la famiglia, ho la moglie e quattro figli..."
Fino ad allora... nemmeno io pensavo di andare a uccidere nessuno.
Vaffanculo! Ci si abitua a tutto, ci si abitua.
Ero diventato un assassino. Un sicario della mafia. Tutti mi dicevano sempre che era giustificato, perché se mi chiamava... lo stato che entrava in guerra io dovevo andare a uccidere le persone per lo stato. Allora, siccome noialtri siamo soldati, allora è uguale, la stessa cosa.
Io sono un soldato e voi mi avete assunto per sparare al posto vostro, merda, e non mi avete nemmeno versato i contributi. Non l'avete neanche denunciato al fisco. Io sono stato al vostro servizio. Ho pulito le tracce di culo dei vostri panni sporchi e non vi siete nemmeno preoccupati di farmi avere uno spacchio di pensione. Mi avete preso a progetto, strage dopo strage, assassinio dopo assassinio. Cazzo, un professionista come me. Un cazzo di killer del mio livello assunto con un contratto cococo. Andate a fare in culo, andate.
Per ammazzare quell'uomo ci serviva una pistola col silenziatore, io avevo una 7,65; il mio collega un silenziatore artigianale. Allora siamo andati a far fare la filettatura nella canna.
Per filettare la canna della pistola che è femmina, ci vogliono tre maschi, che si distinguono in base alla grandezza dello smusso. Il primo maschio deve essere quello con la puntatura maggiore, poi il secondo con una smussatura più piccola, e infne il terzo con una smussatura quasi inesistente. Il maschio più grosso, montato sul giramaschi, viene ficcato dentro la canna e comincia a filettarla in maniera più grossolana, preparando la strada per il secondo maschio, il quale a sua volta crea le condizioni per far fare il lavoro di fino all'ultimo maschio, quello con la puntatura più piccola di tutti che si trova praticamente con il lavoro già fatto dai maschi con la puntatura più grossa. Capito? La tecnica è che ad ogni giro del giramaschi è necessario riportare di un mezzo giro il giramaschi all'indietro, per far spezzare il truciolo che deve essere scartato. Bisogna eliminare il truciolo per completare il giro della filettatura. Bisogna eliminare le parti che più ci imbarazzano per sopravvivere ai mutamenti dei contesti storici. Ed è lì che i maschi con le puntature insignificanti non riconoscono il lavoro fatto dai maschi con le puntature più grosse.
C'è il fatto, però, che a me non mi va manco per il cazzo di recitare la parte del truciolo.
E' arrivato il momento di prendervi la vostra responsabilità nella commedia.
Che cosa vi hanno detto per esservi decisi a venire qui? che vi hanno raccontato? Che si trattava di intrattenimento culturale? Mi fa cagare tutta questa cultura del cazzo! Non c'avete meno merda di me addosso!
Che cazzo vi hanno raccontato. A che minchia di cose vi siete convinti di credere? Che noi eravamo l'antistato? Che noi combattevamo contro lo stato? Noi non combattiamo lo stato, noi non possiamo combattere lo stato perché noi siamo lo stato. Noi siamo soldati, siamo il corpo scelto dei soldati dello stato. Siamo noi che abbiamo liberato l'Italia nella seconda guerra mondiale, non ve lo ricordate? Noi siamo patrioti. Quando cantate l'inno nazionale a che minchia pensate? La Sicilia è stato il fronte caldo della guerra fredda. Ed è lì che io ho rischiato il culo per voi.
Noi non abbiamo combattuto per lasciare questo stato in mano a gente con la puntatura inesistente come voi.
A noi i servizi segreti non ci possono infiltrare perché a noi i servizi segreti ci hanno chiesto di fare azioni segrete. Ci hanno chiesto di partecipare a colpi di stato per stabilizzare lo stato. Noi abbiamo messo le bombe a Piazza Fontana, abbiamo aiutato i petrolieri e gli interessi occidentali a fare fuori Enrico Mattei. L'abbiamo fatto nell'interesse degli italiani, degli inglesi e degli americani. Abbiamo ammazzato 48 sindacalisti all'indomani della vittoria dei socialisti e dei comunisti in Sicilia. Noi siamo stati l'esercito segreto per impedire che i sovietici invadessero l'Europa e i governi dell'Europa andassero nelle mani dei comunisti. Abbiamo fatto le stragi di Portella delle Ginestre, dell'Italicus, della stazione di Bologna. Abbiamo ammazzato Pier Paolo Pasolini. E le armi ce le hanno date loro... Ce le avete date voi. Ce le ha date lo stato, ce le hanno date gli americani. Dietro. Ma davanti a tutti ci insultano. Mi insultate. Dice che siamo assassini, mafiosi, gente senza onore. Però dietro... per favore... per favore... Per sessantanni ci sono stati depositi di armi nascoste in tutta Europa a disposizione degli eserciti clandestini degli stati democratici. Noi abbiamo difeso la democrazia. Perché nessuno lo dice che se l'Italia è uno stato democratico è merito della mafia? E ora ci volete fottere, come se noi non avessimo mai avuto a che fare con voi. Ma noi non possiamo perdere, perché noi custodiamo i segreti di stato... perché noi siamo il sancta sanctorum dello stato.
No, non potete venire qua a farmi la critica di questa merda di rappresentazione che va in scena da settantanni. Dice che sono pazzo, che sono diventato troppo ballerino perché mi sono scassato la minchia di fare il teatro di rappresentazione. Mi sono scassato la minchia di fare finta, di dire bugie, di vedervi credere alle bugie seduti comodi nelle vostre sedie innocenti a sentirvi tutti brave persone.
Forza avanti, ora dovete cominciare a sparare. Coraggio, alla fine ci si abitua a tutto.
Tu mi aiuterai, amico, tu mi aiuterai.
Tutti vogliono che lo muoia, io più di ogni altro. Io sono qua, in attesa che tu mi liberi dal dolore.
Ma voglio morire da soldato, in piedi, non come un pentito, un rinnegato, un truciolo di merda da da risucchiare nella canna del cesso.
Sparami tu, tu sei una brava persona. Lo vedo, lo vedo che tu mi stai cominciando a capire.
Ti insegno io come devi fare. Cazzo, sono il più bravo.
Mi pensi già morto dentro di te. E' un'azione interna che devi sentire. Prima colpisci il bersaglio dentro di te e poi spari. Quello che devi ammazzare sono io dentro di te.
Tutto il resto è gesto esterno, rappresentazione.
Killer si immerge nell'acqua tra i vestiti rosso sangue mimando una morte melodrammatica.


VOCE FUORI CAMPO

Questa non è una pipa, questa non è una piscina, questi non sono vestiti.

http://www.flickr.com/photos/salvatorezinna/show/

mercoledì 8 dicembre 2010

'u golpe


a cento passi da me casa

… in via Etnea, a casa di Pippo Calderone, i capi di cosa nostra stavano in riunione. C'erano Luciano Liggio, Masino Buscetta, Totò Greco Cicchiteddu. Ogni tanto veniva Binnu Provenzano col treno da Palermo, sei ore di viaggio, perché non aveva i soldi per la macchina e perché non sapeva guidare. Venti giorni di riunioni a cui partecipavano i mafiosi più mafiosi che andavano e venivano da Palerrmo, Caltanissetta e tante altre province. Venti giorni di riunioni, ma non troppe perché c'era la Coppa del Mondo Rimet 1970, in Messico, e i mafiosi volevano vedere le partite. A trenta passi dalla parrocchia di Santa Maria della Mercede, dove noi rigiocavamo Italia Svezia, uno a zero, con il goal di Domenghini, che però era Iaffiu, ma noi lo chiamavamo Domenghini, perché il goal lo rifaceva preciso preciso. Avevamo sette, otto, nove, dieci anni. A un passo dalla casa di Iaffiu Domenghini, dove suo padre era il portiere. Il portiere del palazzo dove c'era l'appartamento di Pippo Calderone. A zero passi, u golpe. Perché di questo discutevano nelle riunioni tra una partita e l'altra, se mandare i picciotti ad occupare le prefetture e imporre nuovi prefetti. Così aveva proposto a cosa nostra Junio Valerio Borghese attraverso il mafiosissimo Giuseppe Di Cristina, dipendente dell'EMS, l'Ente Minerario Siciliano, cioè l'ENI dell'isola, capo della famiglia di Riesi, in provincia di Caltanissetta. Se qualcuno avesse fatto resistenza, i mafiosi – che avrebbero dovuto portare per l'occasione una fascia di riconoscimento al braccio – lo avrebbero dovuto immediatamente arrestare. A Pippo Calderone venne un colpo: “Arrestare a chi? Noi, i mafiosi, metterci a fare gli arresti. Nuiautri cose 'i sbiri 'un ni facemu! Omicidi, se è il caso, i facemu, ma arresti...” Era scandalizzato lo zio Pippo, mentre a cento passi, in via Costanzo, a casa mia c'era ospite Maria, la cugina di mio padre, che veniva dal paese e si doveva fare l'opirazione. Però era contenta Maria, perché suo marito lo stavano assumendo alla nuova raffineria che avrebbe dovuto sorgere a Marina di Melilli. Era una cosa che non era ancora ufficiale. L'onorevole Raciti gli aveva promesso il posto. Il fatto era che i Cameli di Genova, da armatori che erano, avevano deciso di convertirsi in raffinatori di petrolio e avevano acquisito una vecchia licenza inutilizzata dagli anni 50 e stavano cercando un posto dove insediarla sta benedetta fabbrica. Il problema era che questa raffineria l'avevano rifiutata da diverse parti: a Sestri Levante, a Ravenna, a San Vito Lo Capo. Stavano riuscendo quasi a farla all'oasi di Vendicari se quei rompicoglioni degli ambientalisti ante litteram non avessero fatto il diavolo a quattro. Il comune di Noto e pure i sindacati la volevano a tutti i costi nel loro territorio perché sarebbe stato lo sviluppo dall'arretratezza così finalmente pure la passscrrrria del basssscrrrocco abrebbe avuto la sua indussssrrriia; eppure la situazione era in stallo. C'era bisogno almeno di una trentina di autorizzazioni per insediare una raffineria in un'oasi naturale. Cose da pazzi, ripetevano i Cameli. L'Italia è veramente sull'orlo di un disastro sociale e politico. Addirittura al governo ci stanno pure i socialisti e il parlamento sta per approvare lo statuto dei lavoratori. Ma dove vogliamo arrivare! Di questo discutevano il 12 aprile dell'anno precedente i Cameli con il principe Junio Valerio Borghese a Genova, in una villa a picco sul mare in via Santa Chiara, 39, la casa dell'industriale Guido Canale. Ma dove vogliamo arrivare! E' il momento di fare u golpe. Erano rimasti daccordo così i Cameli con Junio Valerio Borghese: loro come armatori avrebbero messo a disposizione, quando sarebbe arrivata l'ora x, le loro navi per il trasbordo alle Eolie e in Sardegna degli avversari politici rastrellati dai mafiosi e dai carabinieri golpisti. Così dicevano i Cameli proprio in quei giorni che Maria aspettava di farsi l'opirazione a casa mia e la situazione per la costruzione della raffineria era in stallo. Poi Cameli viene a parlare con l'assessore Raciti e con tutti i politici dell'arco costituzionale siciliano e in meno di cento giorni ottiene tutti i nulla osta che servono per costruire questa raffineria a Marina di Melilli. Il problema era che a Marina di Melilli, dove doveva sorgere questa mega raffineria, c'era... Marina di Melilli; le case di Marina di Melilli, i bambini di Marina di Melilli, le donne incinte di Marina di Melilli; i vecchi di Marina di Melilli... E poi c'era la legge che vietava assolutamente di costruire impianti inquinanti a ridosso dei centri abitati. Quella raffineria era proprio un abuso. Cose da pazzi!, pensavano i Cameli. Ma dove vogliamo arrivare, vogliamo fare come in Cile che è diventato uno stato comunista? E allora ci pensa Raciti e tutto il consiglio d'amministrazione dell'Area di Sviluppo Industriale di Siracusa che approva una variante del piano regolatore rendendo legittima la raffineria e trasforma in abusivo l'intero paese di Marina di Melilli che deve a questo punto essere raso al suolo. U golpe, hanno pensato gli abitanti del paesino della costa ionica che non sapevano dove caspita avrebbero dovuto trasferirsi. Finalmente, pensava Maria mentre aspettava a casa mia di farsi l'opirazione. Poi si trovò il foglio con le cifre che Cameli e il suo socio Garrone hanno pagato a Raciti e a tutto l'arco costituzionale siciliano, compresi i comunisti, per fare u golpe a Marina di Melilli. Compreso l'Ora, il glorioso giornale di Palermo dove lavorava Mauro De Mauro. Che nei giorni de “u golpe a cento passi da me casa” intervistava Graziano Verzotto, plenipotenziario democristiano a Catania e nel siracusano fin dal dopoguerra, potentissimo presidente dell'EMS, l'ENI siciliana, compare d'anello insieme allo zio Pippo Calderone del suo dipendente mafiosissimo Giuseppe Di Cristina. Lo intervistava perché in quei mesi in Italia e in Sicilia si stava giocando la partita del petrolio, che significava “u golpe mondiale”, e un pezzo de “u golpe mondiale” si stava giocando a cento passi da me casa, nello stesso porticato dove Iaffio Domenghini rifaceva il goal di Italia Svezia preciso preciso. De Mauro lavorava in quei giorni per Verzotto e lo aiutava nella sua battaglia contro Cefis il quale si opponeva alla realizzazione del metanodotto che avrebbe dovuto unire la Sicilia all'Algeria. Verzotto riferiva al magistrato Calìa che aveva riaperto il caso dell'attentato a Enrico Mattei che “l'Eni presieduto da Cefis si opponeva alla realizzazione del metanodotto progettato dall'Ente Minerario Siciliano anche allo scopo di non perdere il monopolio sul metano. Il metano definito come la Zecca dell'Eni, era infatti un imponente strumento di autofinanziamento per l'ente petrolifero nazionale e, quindi, di raccolta di risorse per il finanziamento della politica”. Per di più, in quegli stessi mesi d'estate 1970 Mauro De Mauro indagava sulla morte di Mattei per conto di Francesco Rosi che stava per realizzare il suo celeberrimo film. A una sua amica incontrata in quei giorni De Mauro diceva di essere sul punto di rivelare qualcosa in grado di far saltare l'Italia. Anche in questo caso la fonte di Mauro De Mauro era il senatore Graziano Verzotto che soltanto all'utimo momento aveva declinato l'invito di Enrico Mattei di accompagnarlo nel suo ultimo volo che avrebbe portato il suo Morane Saulnier ad esplodere sui cieli di Bascapé. Il Morane Saulnier manomesso all'aeroporto catanese di Fontanarossa. Da chi? Pare che tutto il mondo avesse interesse che quell'aereo saltasse in aria e quell'attentato avrebbe potuto essere organizzato ovunque. Ma fu a Catania che venne piazzato l'esplosivo in un vano dietro la cloche. E' stato necessario eludere sorveglianza, distrarre il pilota, camuffare assassini per ufficiali dell'aeronautica. C'è stato bisogno di un buon controllo del territorio. E a Catania il territorio lo controllava cosa nostra della famiglia del co-compare d'anello del senatore Verzotto al matrimonio di Di Cristina, lo zio Pippo Calderone. Il co-compare senatore Verzotto portò in giro per Catania il pilota di Mattei. Di Cristina, da molti, venne accusato di aver organizzato la manomissione dell'aereo. De Mauro venne fatto sparire dai mafiosi di cosa nostra riuniti per discutere de “u golpe” a cento passi da me casa. Poi, dopo la morte bianca di De Mauro, due mesi dopo, a settembre, viene trovato un foglio dentro un cassetto chiuso della sua scrivania a l'Ora con un appunto manoscritto: “golpe continuato”.

Il marito della cugina Maria, ammalato di tumore ai polmoni per l'inquinamento dovuto al lavoro alla raffineria, morì nel 1985 a bordo dell'ambulanza rimasta bloccata nell'immenso ingorgo causato dal panico della popolazione di Augusta, Melilli e Priolo per lo scoppio di un'altra raffineria, l'Icam. Migliaia, migliaia e migliaia di persone si riversarono nelle strade per paura di una nube tossica dopo aver visto le fiamme arrivare a seicento metri d'altezza. Una donna alla guida di una Mercedes morì d'infarto sul ponte di Augusta. L'unico che collegava alla terraferma. E bloccò in una galera, possibile camera a gas a cielo aperto, gli abitanti dell'isola in fuga. Era la sorella di Raciti, il presidente della Regione che aveva preso i soldi per fare u golpe di Marina di Melilli.
Sull'ambulanza imprigionata dalla sorella di Raciti, moriva il marito della cugina Maria.
Io avevo poco più di vent'anni e non capivo perché mi trovavo nel cuore dell'apocalisse.

P.S. : non tutto è vero in questo racconto. Il marito della cugina Maria me lo sono inventato. Il morto nell'ambulanza non era lui.

lunedì 30 agosto 2010

Dice il Giorno, nel 1973

Il Giorno. Un articolo del 1973, del 14 gennaio, che sembra la descrizione dell'apocalisse. Dice che Catania va in rovina con furore. Dice che la città, al primo impatto, ti accoglie per strade disselciate dove la sporcizia è impressionante e sembra crescere di minuto in minuto. Dice che la viabilità è un groviglio di interruzioni dovute ad opere pubbliche incominciate e lasciate a metà. Dice che il disordine edilizio, spaventoso appare subito evidente per i molti palazzi rimasti bloccati nelle loro impalcature che stanno marcendo, abbandonate da mesi. Dice che lungo la litoranea i grattacieli si affacciano su un'arteria moderna dove le fognature sono inservibili perché intasate dalle immondizie. Dice che carogne di cani e carcasse di auto cui hanno smontato lo smontabile occupano lunghi tratti del marciapiede a mare. Dice che cartelli segnaletici sono caduti invadendo la sede stradale e nessuno si è sognato di toglierli. Dice che l'energia elettrica va e viene di continuo. Dice che l'acqua potabile da anni fa regolari vacanze estive lasciando la città quasi all'asciutto. Dice che la programmazione industriale, dopo avere installato un modesto gruppo di complessi improduttivi, da sempre è paralizzata. Dice che l'agricoltura estensiva è in crisi. Dice che il commercio, grande e piccolo ristagna da anni. Dice che i coltivatori di agrumi piangono amare lacrime sulla concorrenza spietata di paesi come la Spagna, Israele, il Nord Africa e la stessa California che ha portato il settore ai più bassi indici di esportazione di questi ultimi anni. Eppure siamo nella città che un tempo si proclamava la "Milano del Sud", dice. La città che è da sempre considerata la più potente dell'isola, dice. Dice che il catanese è stato una fabbrica di soldi, dice, che li ha prodotti in ogni maniera, dice, commerciando, vendendo, acquistando e rivendendo, trattando, costruendo, arrangiandosi. Però, dice, che Catania, dice nel 1973, dice, in questi ultimi anni ha cominciato a girare a vuoto. Dice che si è ritrovata sporca, arrogante, imbrogliona, disordinata e violenta. Dice che lo scippo è il re dei reati cittadini; dice che la rapina a banche, uffici postali, banchi del lotto è un fatto quotidiano; dice che il furto di auto tocca le cinquanta unità giornaliere; dice che il contrabbando di sigarette è intenso, dice. Dice che i furti in appartamenti sono all'ordine del giorno. E la prostituzione prospera, dice - unico esempio italiano - in un ghetto squallido tra le stradine del quartiere di San Berillo vecchio risparmiato dalla grande operazione di risanamento che aveva portato alla creazione del modernissimo corso Sicilia. Dice che del gruppo originario del quartiere, costituito da trentamila persone, solo cinquemila hanno resistito asserragliate in queste case cadenti, le facciate quasi combacianti, rivoli d'acqua che scorrono dai muri come un maleodorante sudore, dice. Dice che in questo ghetto, a cinquanta metri dal "corso delle banche" vivono seicento prostitute in simbiosi, dice, con omosessuali, ruffiani, ladri, ricettatori, contrabbandieri e rapinatori, dice. Dice che le donne siedono dietro la soglia del basso in una specie di povera imitazione delle vetrine di Amburgo, dice. Dice che sono prostitute d'infima specie, dice, grasse e sformate, dice, volti malati sotto un trucco grottesco, dice. Dice che attorno alle donne, dice, sia al san Berillo che al san Cristoforo, dice, dice che c'è un mondo di criminali impenetrabili alla stessa polizia, dice. Dice che i ragazzi dai quattordici ai diciassette anni vengono strumentalizzati dagli adulti quali truppe d'assalto, dice, scippi e furti d'auto sono gestiti quasi esclusivamente da minorenni. Dice che su cinquanta auto rubate al giorno venti vengono ritrovate, dice, trenta spariscono, dice, inghiottite dal nulla anche se si sospetta che vadano a finire in Africa, dice. Dice che continue sono le aggressioni a donne che stanno facendo la spesa in centro; dice che ci sono ragazzini di quattordici anni che si sparano nei piedi per stabilire a chi tocchi l'utile di una prostituta; dice che ci sono scippi a catena, dice, organizzati in piazza Caduti del mare da una banda di giovanissimi, dice, che sfruttava il rallentamento obbligatorio del traffico, dice, per aprire contemporaneamente tutti gli sportelli delle auto in transito asportando qualsiasi oggetto si trovasse all'interno, dice. Dice che i catanesi, di colpo, hanno scoperto che mancano le strutture fondamentali, dice; dice che l'industrializzazione dalla quale avevano preteso soluzioni miracolistiche, dice, li ha lasciati con alcune aziende statalizzate che non producono benessere ma sono solo di peso, dice. Dice che il turismo, dice, in una città che ha chilometri di splendido mare da sfruttare ,dice, è stato completamente trascurato, dice. Dice che i politici locali hanno trasformato il governo della città, dice, in una faida delle parti lontanissima da ogni interesse per il bene comune. Dice che sull'originaria volontà politica di trasformare Catania in una Milano del Sud, dice, s'inserirebbe smisuratamente una partitocrazia sensibile, dice, a doveri clientelari, dice, esposta a ogni tipo di pressione speculativa, dice, impegnata nella distribuzione di prebende, dice, ai notabili più meritevoli dice. Dice che a Catania, dice - che sono gli stessi politici che governano la città ad ammetterlo, dice - dice che c'è un vuoto di potere, dice. Dice che tra i partiti democratici e la base, dice, non c'è colloquio né comunicazione d'interessi, dice. Dice che la crisi economica, dice, che ha investito Catania, dice, che li ha trovati del tutto impreparati, dice. Impegnati, dice, in lotte personali, dice, hanno lasciato che la città continuasse a consumare se stessa, dice, senza contribuire a creare nulla di nuovo, dice. Dice che ci si è dimenticati negli ultimi anni di fabbricare scuole e ospedali, dice, che ci si è dimenticati di programmare uno sviluppo industriale, dice, di puntare sul turismo, dice, di creare valide strutture portanti per i diversi insediamenti, dice. Dice che la situazione si deteriora sempre più rapidamente. Dice che gli ospedali cittadini sono in condizioni disastrose. Dice che c'è un'industria sovvenzionata che paga tre miliardi di stipendi annui per un fatturato che non supera il miliardo, dice. L'edilizia, dice, che da sola fino a qualche tempo fa ha fatto da cavallo trainante dell'economia catanese, dice, è sempre stata esclusivamente residenziale, dice, di lusso, dice, insomma, ad altissimi indici speculativi, dice. Oggi Catania, dice, dice che è una città dove nessuno ancora muore di fame. Dice che è una città dove i redditi più alti non compaiono perché gli intestatari hanno ottenuto la residenza nei paesi dei dintorni. Dice che è anche una città molto delusa nelle sue ambizioni, che erano diverse dalla realtà di oggi. Dice che la città forse riuscirà a sopravvivere ma certo la democrazia, qui, è molto malata. Dice che il catanese assiste sbigottito allo sfacelo della sua città nella quale aveva sempre creduto.

E io dico: "Che culo, non siamo più nel 1973!"